Il bene tutelato dalle norme deontologiche è, com’è noto, il decoro, l’immagine dell’avvocatura, quindi la “parte offesa” (se così si può dire) non è il cliente (o ex), il quale pertanto -così come la sua rinuncia o revoca dell’esposto non estingue il procedimento disciplinare- non può tecnicamente ritenersi l’avente diritto che, salvo eccezioni espresse, potrebbe prestare idoneo consenso a scriminare l’illecito disciplinare, trattandosi appunto di un bene dallo stesso non “disponibile” (arg. ex art. 50 cp).
In questi termini, che valorizzano le finalità superindividuali delle norme deontologiche, si sono ad esempio pronunciate, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Pardi, rel. Pardi), sentenza n. 171 del 11 ottobre 2022, Consiglio Nazionale Forense (pres. Mascherin, rel. Greco), sentenza n. 191 del 15 ottobre 2020 nonché Consiglio Nazionale Forense (pres. Masi, rel. Corona), sentenza n. 170 del 23 settembre 2020.
Tuttavia, a dimostrazione del fatto che la materia è assai scivolosa, in altri casi si è invece ritenuto che tale consenso (dell’avente diritto?) scrimini l’illecito: Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Melogli, rel. Di Maggio), sentenza n. 142 del 17 luglio 2021 e Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Logrieco, rel. Baffa), sentenza del 16 ottobre 2018, n. 123.
Entrambi i riferiti orientamenti, sebbene espressi con specifico riguardo al divieto di cui all’art. 68 cdf (“Assunzione di incarichi contro una parte già assistita”), possono teoricamente rilevare anche negli altri illeciti deontologici, per i quali tutti rimane pertanto un certo margine di “rischio deontologico” pur a fronte di un consenso espresso dal c.d. avente diritto.