In tema di “pubblicità” dell’avvocato (rectius, “informazione sull’esercizio della professione”), la legge (art. 10 L. 247/2012) e il codice deontologico (art. 17 co. 3 cdf e art. 35 co. 1 cdf) impongono che “In ogni caso le informazioni offerte devono fare riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.”.
La norma può apparire di difficile interpretazione. In che senso la “pubblicità” dell’avvocato deve sempre “fare riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale“?
Essa vorrebbe forse dire che l’avvocato può sì farsi “pubblicità”, ma la pubblicità stessa deve comunque sempre riguardare soltanto la propria attività professionale? In altri termini: la norma dispone che l’avvocato possa pubblicizzarsi ma solo come avvocato, di talché le informazioni pubblicitarie fatte dall’avvocato non potrebbero ad esempio riguardare la promozione di “prodotti” diversi da quelli attinenti alla professione forense?
Così interpretata, l’avvocato non potrebbe (oltre che fare impresa, neppure) pubblicizzare beni prodotti da imprese altrui, come testimonial o portavoce dei brand stessi.
Se così è, tale limite dovrebbe tuttavia essere limitato alla pubblicità commerciale in senso stretto, sicché l’avvocato potrebbe promuovere invece iniziative altrui che nulla hanno a che fare con la professione forense, ma comunque ritenute meritevoli (ad es., l’avvocato che presti il proprio volto per una raccolta fondi della Charitas, o di una associazione benefica a sostegno di terremotati, eccetera). Invece, non potrebbe invece fare la pubblicità di un profumo perché rientrerebbe nel divieto della norma.
Ma, a ben vedere, questa interpretazione, appare poco soddisfacente, riguardando i casi piuttosto rari (se non improbabili) in cui l’avvocato è scelto come testimonial di prodotti commerciali che -in teoria- sarebbe in grado di promuovere efficacemente presso il pubblico sol perché svolge la professione di avvocato. Il che, al di là del prestigio che la professione forense effettivamente risucote presso il pubblico dei consumatori, risulterebbe forse una esegesi un po’ presuntuosa.
Proviamo ad immaginare, allora, un diverso e più esteso ambito di applicazione della norma.
E tale ambito potrebbe essere la c.d. pubblicità “indiretta”, cioè quella in cui l’avvocato non promuove direttamente le qualità del proprio studio legale, ma lo fa appunto in modo indiretto, come nei casi classici di “finte” interviste, rubriche nei media, eccetera (per alcune ipotesi deontologicamente rilevanti, cfr. Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel. Pisano), sentenza del 10 giugno 2014, n. 83).
Ebbene, rimanendo nell’ambito della “pubblicità” indiretta MA conforme ai principi generali di decoro, dignità, ecc. (per un caso opposto cfr. Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa Guido, rel. Vermiglio Carlo), sentenza n. 211 del 10 Dicembre 2007, che si è occupata del cao in cui l’avvocato aveva pubblicizzato il proprio studio legale pubblicando sul sito web la foto della moglie in abbigliamento discinto), immaginiamo allora il caso dell’avvocato che pubblica sul paginone centrale del più importante quotidiano nazionale una propria foto -decorosa, dignitosa (quindi in perfetta linea coi principi generali)- nella classica posa a braccia conserte con la scritta “entra a far parte del mio team”.
Ora, tale pubblicazione, ancorché diretta a potenziali collaboratori di studio, è comunque una forma di pubblicità (indiretta) verso potenziali clienti, nei cui confronti il messaggio è quello di uno studio legale facoltoso che può permettersi pubblicità costose, che cerca collaboratori perché ha tanto lavoro, insomma l’immagine di un professionista di successo: lo stesso messaggio che passerebbe se l’avvocato in questione si promuovesse -in modo diretto- come “l’avvocato più bravo della città” (che tuttavia sarebbe illecita perché comparativa ex art. 17 e 35 cdf).
La citata pubblicità nel paginone centrale, invece, non è comparativa, può essere altrsì confezionata in modo rispettoso dei principi generali in tema di decoro, dignità ecc., quindi è formalmene lecita.
Senonché NON fa “riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale” (art. 10 L. 247/2012 e art. 17 comma 3 cdf), sicché può assumere rilievo deontologico quale pubblicità “indiretta”.
L’ambito di applicazione del principio in esame, quindi, appare proprio la pubblicità indiretta, che è un escamotage spesso usato per aggirare i limiti alle informazioni sull’esercizio della professione, con modalità che, nella sostanza, mantengono disvalore deontologico (Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. CRICRI’, rel. DE MICHELE), sentenza del 24 settembre 2005, n. 126).