Con la sentenza n. 19137 del 6 luglio 2023, la Corte di Cassazione si è recentemente occupata della condanna alle spese legali nell’ambito del procedimento disciplinare, affermando che quivi trova necessaria applicazione il principio di cui all’art. 91 cpc, sebbene limitatamente alle fasi giurisdizionali del procedimento stesso e fatta eccezione per il PM soccombente (Corte di Cassazione, SS.UU, sentenza n. 19675 del 3 ottobre 2016, nonché Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 48 del 27 marzo 2023). Invece, la questione non si pone per il CDD, che non è parte del relativo giudizio di gravame (cfr. Corte di Cassazione, SS.UU, sentenza n. 12902 del 13 maggio 2021, nonché Corte di Cassazione, SS.UU, sentenza n. 24109 del 30 ottobre 2020). Tale ultima precisazione potrebbe sembrare scontata, giacché sarebbe piuttosto strano che il giudice a quo possa poi essere parte appellata del giudizio di gravame che riguarda appunto la sua stessa decisione; ma, in realtà, questo è proprio ciò che accadeva in passato, quando a decidere era il COA, il quale poi davanti al CNF diventava parte (come lo è tuttora). Peraltro, tale commistione di ruoli -giudice prima e parte poi- è ciò che normalmente accade nei procedimenti amministrativi sanzionatori (si pensi alle ordinanze ingiunzioni emanate dalla P.A., che poi diviene parte nei relativi giudizi di impugnazione), come appunto quello che si svolge dinanzi al CDD, che ha infatti natura amministrativa ancorché “giustiziale” (per tutte, Corte di Cassazione, SS.UU, sentenza n. 29588 del 11 ottobre 2022). Per un approfondimento su tale ultimo tema, v. questo articolo.

Peraltro, è bene ricordare che il principio in parola, così come affermato dalla citata Cassazione, era già stato riconosciuto dal CNF (cfr. Consiglio Nazionale Forense, sentenze n. 97 del 16 luglio 2015, n. 76 del 5 giugno 2014, n. 24 del 18 marzo 2014), con un’unica ormai remota eccezione (contra, Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 4 del 10 gennaio 1997).

Ciononostante, bisogna ammettere che, seppur certamente applicabile in teoria, è oggettivamente raro riscontrare, in concreto, un siffatto capo di condanna nelle relative sentenze di gravame, e ciò per ragioni di tipo anzitutto statistico (v. grafico in calce).
Infatti, i gradi giurisdizionali del procedimento disciplinare sono pressoché tutti avviati su impulso dell’incolpato (sanzionato dal CDD), i quali tuttavia sono in gran parte rigettati, ma siccome il COA non solo impugna di rado ma anche raramente si costituisce in giudizio come appellato, l’incolpato soccombente quasi mai può essere condannato alle spese legali, stante appunto la contumacia dell’appellato vittorioso.

Rientrano, invece, nella potenziale applicabilità del principio in parola i seppur rari casi di accoglimento integrale dell’impugnazione da parte dell’incolpato già sanzionato dal CDD e pienamente assolto in sede di gravame, che sono pari al 16,36% sul totale di decisioni CNF (circa 300 l’anno), ferma restando comunque la possibilità di far luogo alla compensazione delle spese stesse ricorrendone i presupposti di cui all’art. 92 cpc, come nel caso di proscioglimento dell’incolpato dovuto a (mera) prescrizione dell’azione disciplinare, ovvero di accoglimento solo parziale della sua impugnazione limitatamente al quantum (con mera mitigazione della sanzione) ma con conferma dell’an su tutti o alcuni capi di incolpazione (13,35% del totale).

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