L’art. 30 co. 2 cdf e l’art. 31 co. 1 cdf hanno sostanzialmente il medesimo contenuto. Infatti, il divieto di “trattenere oltre il tempo strettamente necessario le somme ricevute per conto della parte assistita“ (art. 30 co. 2 cdf) e l’obbligo di “mettere immediatamente a disposizione della parte assistita le somme riscosse per conto della stessa” (art. 31 co. 1 cdf) descrivono lo stesso comportamento, ma semplicemente con formulazioni diverse, l’una in negativo (attraverso la previsione di un divieto), e l’altra in positivo (attraverso la previsione di un obbligo).

Ma, se davvero le due norme dicessero la stessa cosa, il problema non sarebbe tanto la duplicazione del precetto deontologico (repetita juvant), quanto piuttosto l’aporia dovuta al diverso trattamento sanzionatorio previsto per le rispettive violazioni. Infatti, l’avvocato che trattiene oltre il tempo strettamente necessario le somme ricevute per conto della parte assistita (art. 30 co. 2 cdf) è sanzionato con la “sospensione da 6 a 12 mesi” (aggravabile fino a 3 anni), mentre l’avvocato che non mette immediatamente a disposizione della parte assistita le somme riscosse per conto della stessa (art. 31 co. 1 cdf) è sanzionato con la “sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni” (aggravabile fino alla radiazione). Non è una differenza da poco, se davvero fosse un medesimo comportamento illecito.

Ma è davvero lo stesso illecito?

No, sono due illeciti potenzialmente diversi.
Infatti, l’art. 30 cdf e l’art. 31 cdf citt. -che peraltro riproducono le medesime previsioni già contenute nel codice previgente (rispettivamente, art. 41 cod.prev. e art. 44 cod.prev.) ove appunto era già presente questa duplice previsione sanzionatoria- si riferiscono a due fattispecie diverse: la gestione di denaro altrui (art. 30 cdf, già art. 41 cod.prev.) e la compensazione (art. 31 cdf, già art. 44 cod.prev.). In buona sostanza, il comportamento è il medesimo (l’avvocato omette di consegnare al cliente le somme ricevute per suo conto), ma in un caso lo stesso avvocato riconosce che le somme siano di spettanza “altrui” limitandosi a gestirle (come appunto recita la rubrica dell’art. 30 cdf), mentre nell’altro caso intende appropriarsene a compensazione del proprio credito professionale (come appunto recita la rubrica dell’art. 31 cdf). Insomma, a fronte di un medesimo elemento oggettivo o comportamento materiale omissivo (cioè la mancata consegna del denaro al legittimo proprietario), a qualificare l’illecito è l’elemento soggettivo cioè il fine del comportamento stesso: se lo scopo è quello di appropriarsi delle somme (art. 646 c.p.) allora l’illecito deontologico è quello di cui all’art. 31 co. 1 cdf, mentre in tutte le altre ipotesi (ad es., ritardo dovuto a negligenza, dimenticanza, ecc.), in cui l’avvocato sa e riconosce di dover consegnare le somme alla parte assistita ma sta “solo” violando la tempestività e diligenza dell’obbligo, allora l’illecito è quello di cui all’art. 30 co. 2 cdf.

Ciò detto, rimane da chiarire il rapporto tra i due illeciti.

Anzitutto, deve escludersi che, a fronte di una medesima condotta materiale, l’avvocato possa essere sanzionato due volte (cioè ai sensi dell’art. 30 co. 2 cdf nonché dell’art. 31 co. 1 cdf), anche in virtù del principio di specialità, che trova applicazione pure in sede disciplinare1.

In secondo luogo, nel dubbio, dovrebbe propendersi per l’illecito (meno grave) di cui all’art. 30 co. 2 cdf, giacché l’art. 31 co. 1 cdf è caratterizzato dal fine di appropriarsi della somma e quindi da un particolare elemento soggettivo (dolo) che non è in re ipsa nel comportamento stesso giacché, in analogia con quanto avviene per il reato di appropriazione indebita, “non concretizza il reato di appropriazione indebita, nè, eventualmente quello di furto, la violazione dell’obbligo di custodia dei beni da parte dell’obbligato, in assenza della prova di comportamenti dolosamente preordinati a favorirne l’occultamento, l’appropriazione o l’impossessamento da parte di altri soggetti” (Cass. n. 8764 del 03/03/2005).

Se queste considerazioni sono “vere” (tra molte virgolette), esse si riflettono sul piano della teoria generale dell’illecito deontologico, giacché impongono di aggiungere un distinguo sulla descrizione dell’elemento soggettivo:
1) ai fini della sussistenza dell’illecito, l’elemento soggettivo è irrilevante (cd suitas), bastando la sola condotta materiale (art. 4 cdf);
2) l’elemento soggettivo può tuttavia rilevare ai fini della dosimetria della sanzione, giacché “La sanzione deve essere commisurata alla gravità del fatto, al grado della colpa, all’eventuale sussistenza del dolo ed alla sua intensità” (art. 21 co. 3 cdf);
3) l’elemento soggettivo può altresì rilevare ai fini della qualificazione dell’illecito a parità di condotta materiale, come appunto nel caso dell’art. 30 co. 2 cdf e dell’art. 31 co. 1 cdf.

In definitiva, a fini sistematici, la colpa o il dolo dell’incolpato se è pur vero che non sono il presupposto della sua eventuale responsabilità disciplinare (giacché la colpa si presume ed è sufficiente provare la condotta), rilevano ai fini della determinazione della sanzione e, in alcuni casi eccezionali, anche ai fini della qualificazione dell’illecito deontologico, che può variare a seconda dell’elemento intenzionale.

Note.

  1. Per tutte, CNF n. 190/2023, nonché CNF n. 87/2022. ↩︎

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