Nel nuovo ordinamento professionale forense (L. n. 247/2012), che sotto questo profilo segue criteri di natura penalistica, l’azione disciplinare si prescrive nel termine di sei anni dal fatto (art. 56, co. 1) e in nessun caso, quindi al di là degli effetti della sospensione e dell’interruzione, il termine stesso può essere prolungato di oltre un quarto (art. 56, co. 3), cioè sette anni e mezzo dal fatto di rilevanza deontologica; ciò, a differenza della disciplina previgente (art. 51 R.D.L. n. 1578/1933), la quale era invece ispirata criteri di natura civilistica, secondo cui la prescrizione, una volta interrotta, riprendeva a decorrere nuovamente per altri cinque anni.
Corte di Cassazione (pres. Travaglino, rel. Giusti), SS.UU, sentenza n. 32634 del 4 novembre 2022

La disciplina previgente in tema di prescrizione (che, non operando qui lo jus superveniens, si applica ancora agli illeciti tuttora sub judice commessi -se istantanei- o la cui permanenza sia cessata prima della nuova legge) prevedeva che l’interruzione della prescrizione disciplinare in sede giurisdizionale (quindi nei giudizi dinanzi a CNF e Cassazione) avesse effetto permanente fino al passaggio in giudicato della sentenza, secondo quanto previsto in sede civile dagli art. 2943 cc e art. 2945 cc.
Per la nuova prescrizione, invece, è prevista una disciplina completamente diversa (art. 56 L. n. 247/2012).

A tal proposito, la Cassazione qui annotata evidenzia infatti che la nuova prescrizione deontologica (la quale -sia detto appunto tra parentesi perché estraneo all’oggetto della presente indagine- riguarda l’azione disciplinare e non l’illecito, con conseguenze piuttosto interessanti, ad esempio in tema di valutazione del “precedente” disciplinare prescritto in sede di successivo giudizio per illecito diverso e ulteriore, ai fini della commisurazione della sanzione) abbandona i suddetti principi civilistici, perché “segue criteri di natura penalistica”. E aggiunge che il termine prescrizionale massimo (7 anni e mezzo) non può essere superato “in ogni caso” (art. 56 L. n. 247 cit.), quindi -precisa- “al di là degli effetti della sospensione e dell’interruzione”.

La questione non era oggetto specifico di impugnazione, quindi la Corte ha (comprensibilmente) omesso di scendere troppo nei dettagli. Infatti, nel rinviare tout court ai criteri penalistici, qualche distinguo sarebbe stato in realtà possibile: in penale (art. 161 cp), il termine massimo non può essere sforato solo nel caso di interruzione della prescrizione, non pure nel caso di sua sospensione. Invece, in deontologia, l’art. 56 prevede che il termine massimo non possa essere superato “in ogni caso”, quindi -come ricordato dalla Corte stessa- anche nel caso della sospensione (che in penale consente invece di sforare il tetto massimo).
Pertanto, l’affermazione secondo cui la prescrizione deontologica si ispira a “criteri penalistici” va intesa cum grano salis, ad ulteriore dimostrazione del fatto che i due ordinamenti -penale e deontologico- sono autonomi e indipendenti (art. 54 L. n. 247 cit.), fatta ovviamente eccezione per gli effetti di certi giudicati (ad es., non quello di irrilevanza penale del fatto).

Ma c’è da fare, forse, un’ulteriore precisazione, a corollario. Perché non è neppure del tutto vero che il termine massimo prescrizionale non possa essere superato mai, neppure nel caso di sua sospensione.
Infatti, nell’ipotesi della (nuova e mitigata) “pregiudizialità” penale, la prescrizione è sospesa (art. 54, co. 2, L. n. 247 cit.) e non inizia a decorrere “in ogni caso” dal fatto (penalmente e deontologicamente) illecito, ma dal passaggio in giudicato della sentenza penale, con conseguente sforamento del tetto massimo di 7 anni e mezzo per espressa deroga normativa (art. 56, co. 2, L. n. 247 cit.).
Rimane allora da chiedersi se vi siano allora altre ipotesi di sospensione della prescrizione disciplinare e che effetti abbiano sul termine massimo.
A differenza del penale, in sede deontologica non sono previste espressamente altre ipotesi di sospensione della prescrizione, come ad esempio nel caso di rinvii per legittimo impedimento, i quali pertanto non giustificherebbero lo sforamento del termine massimo della prescrizione, tornando ad operare l’inciso “in nessun caso” (art. 56), salvo ritenere ammissibili interpretazioni analogiche della disciplina penalistica, nei limiti in cui questa possa essere applicata al procedimento disciplinare dinanzi al CDD in quanto compatibili (art. 59, lett. n, L. n. 247 cit.), mentre dinanzi al CNF mancherebbe pure tale possibilità integrativa, limitata alle norme del codice di procedura civile (art. 37 L. n. 247 cit.).

In conclusione, la nuova prescrizione disciplinare:

  • si discosta dai principi civilistici dettati in tema di interruzione, la quale infatti in sede deontologica (e a differenza del civile) trova il limite del termine prescrizionale massimo e non ha effetto permanente in sede giurisdizionale;
  • si discosta altresì dai principi penalistici dettati in tema di sospensione, la quale infatti in sede deontologica (e a differenza del penale) non incide sul termine prescrizionale massimo al pari della interruzione, fatta eccezione per il caso espressamente previsto nel caso di pregiudizialità penale.

Riterrei quindi confermata la specialità ovvero la pressoché perfetta autonomia dell’Ordinamento deontologico dagli altri Ordinamenti, i quali ultimi rispetto al primo svolgono una mera funzione sussidiaria nei limiti di un giudizio di compatibilità d’insieme, e ciò non solo in termini di impostazione generale (ciò che è lecito civilisticamente o penalmente può invece rilevare disciplinarmente) ma anche di dettaglio e procedimentale, come appunto in tema di prescrizione.

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