L’avvocato ha il dovere di assicurarsi che le istanze e i documenti che presenta siano veritieri e non duplicati di quelli già rigettati, in ossequio al principio di verità e lealtà previsto dall’art. 50 del Codice Deontologico Forense (CDF). Questo obbligo implica che l’avvocato debba eseguire una verifica accurata delle informazioni e dei precedenti atti processuali.

Tuttavia, nel caso specifico in cui un collega di studio avesse depositato in precedenza la stessa istanza rigettata, la questione della conoscenza dell’avvocato e del suo controllo sulla situazione potrebbe essere esaminata caso per caso. Sarebbe rilevante stabilire se l’avvocato avesse acceso alla documentazione necessaria per accorgersi del precedente deposito e se la mancanza di conoscenza possa essere giustificata rispetto ai doveri di diligenza e organizzazione interna allo studio legale.

In ogni caso, laddove risulti che l’avvocato, pur avendo potuto sapere della precedente istanza, non abbia adottato le opportune verifiche, si configurerebbe una responsabilità professionale per la violazione del dovere di verità. Questo potrebbe dar luogo a conseguenze disciplinari, in applicazione dei principi generali di lealtà e correttezza professionale definiti agli artt. 1 co. 3, 9 e 11 del CDF.

Un esempio relativo al tema può essere riscontrato nella sentenza n. 61 del 31 marzo 2021 del Consiglio Nazionale Forense, riguardante il dovere di verità non solo nel processo, ma anche nei confronti di atti e documenti al di fuori di esso.


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