L’articolo 4 del Codice Deontologico Forense (CDF) riguarda la “Volontarietà dell’azione” e stabilisce i seguenti principi:

  1. La responsabilità disciplinare discende dalla inosservanza dei doveri e delle regole di condotta dettati dalla legge e dalla deontologia, nonché dalla coscienza e volontà delle azioni od omissioni.
  2. L’avvocato, cui sia imputabile un comportamento non colposo che abbia violato la legge penale, è sottoposto a procedimento disciplinare, salva in questa sede ogni autonoma valutazione sul fatto commesso.

Questo articolo sottolinea che la responsabilità disciplinare di un avvocato non deriva solo dalla violazione delle norme legali o deontologiche, ma anche dalla consapevolezza e intenzionalità delle sue azioni o omissioni. In altre parole, un avvocato può essere ritenuto responsabile disciplinarmente se agisce o omette di agire con piena consapevolezza e volontà, violando i doveri professionali.

Inoltre, l’articolo chiarisce che anche un comportamento non intenzionale, ma che violi la legge penale, può portare a un procedimento disciplinare, indipendentemente dalla valutazione penale del fatto.

La sentenza del Consiglio Nazionale Forense n. 181 del 21 novembre 2017 ha ulteriormente chiarito che l’errore nell’interpretazione della norma deontologica non scusa l’avvocato dalla responsabilità disciplinare. L’avvocato è tenuto a conoscere e interpretare correttamente l’ordinamento giudiziario e forense, e un’eventuale imperizia non è considerata incolpevole. Pertanto, l’avvocato è presumibilmente colpevole per un atto sconveniente o vietato, a meno che non possa dimostrare di aver agito senza colpa, ad esempio a causa di un errore inevitabile o di cause esterne che escludono la volontarietà della condotta.


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