La questione delle espressioni sconvenienti o offensive utilizzate da un avvocato durante l’esercizio della sua professione è un argomento delicato e complesso, che pone i limiti della libertà di difesa nei confronti del diritto al decoro e all’onore del soggetto rivolto. Secondo il Codice Deontologico Forense (CDF), l’avvocato deve esercitare il suo professione con decoro, correttezza, integrità e rispetto delle regole e dei doveri di cortesia e lealtà nei confronti dei colleghi, dei clienti, dei giudici e di tutti coloro con cui entra in contatto per ragioni professionali. Tuttavia, la giurisprudenza ha chiarito che, quando l’avvocato esercita il suo compito di difesa, ha il diritto di usare un linguaggio forte e può fare valutazioni generali relative alla materia della controversia, a condizione che tali espressioni non siano offensive e gratuite, cioè non abbiano alcuna relazione con l’esercizio del diritto di difesa e non siano oggettivamente ingiuriose (Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 93 del 3 maggio 2021; Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 9 settembre 2017, n. 120). Inoltre, il fatto che il giudice civile non ordini la cancellazione delle espressioni offensive dagli atti di giudizio è irrilevante per la valutazione disciplinare, dal momento che il giudice disciplinare ha la piena libertà di riesaminare le espressioni utilizzate sotto il profilo deontologico (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 25 settembre 2017, n. 136). D’altro canto, il diritto-dovere di difesa non giustifica l’uso di espressioni sconvenienti e offensive, poiché la libertà della difesa non può mai tradursi in una licenza per utilizzare forme espressive che violano i doveri di correttezza e decoro (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 27 settembre 2018, n. 112).


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