La responsabilità disciplinare degli enti.
L’art. 4 bis L. n. 247/2012 prevede espressamente la responsabilità disciplinare delle società tra avvocati, ulteriore e distinta da quella -individuale- facente capo ai singoli avvocati suoi soci (comma 4), precisando altresì che le società stesse “sono in ogni caso tenute al rispetto del codice deontologico forense e sono soggette alla competenza disciplinare dell’ordine di appartenenza” (comma 6). A tal proposito, due ovvie precisazioni: 1) le società non sono tenute al rispetto, indistintamente, di tutti gli obblighi deontologici (si pensi al dovere di aggiornamento professionale); 2) il riferimento all'”ordine di appartenenza”, quale asserito titolare della relativa potestas disciplinare sulle società, è un mero refuso del Legislatore, giacché va correttamente inteso al Consiglio Distrettuale di Disciplina (art. 50, co. 1, L. n. 247/2012), quindi non al “Consiglio dell’Ordine” ma semmai all'”Ordine forense” nel suo complesso, ossia costituito dagli iscritti all’albo e articolato negli ordini circondariali e nel CNF (art. 24, co. 1 e 2, L. n. 247/2012) e di cui fa parte anche il CDD.
La citata previsione normativa sulla responsabilità disciplinare delle società tra avvocati, che concorre con quella individuale dei suoi soci, è stata riprodotta nel codice deontologico forense (art. 8 cdf).
In tale codice, invece, nulla si dice -né nella parte generale (art. 1-22) né in quella speciale (art. 23 e ss.)- con riferimento alla responsabilità disciplinare dell’associazione professionale, la quale è appunto considerata esclusivamente nell’ottica della responsabilità individuale dei suoi singoli associati (art. 7 cdf).
Occorre quindi chiedersi se una tale responsabilità deontologica dell’ente associativo -magari ulteriore e distinta da quella dei suoi associati- sia comunque configurabile, in astratto nonché in concreto, giacché la legge professionale sembra invece farne espresso riferimento.
Infatti, l’art. 4 L. n. 247/2012, dopo aver riconosciuto che “La professione forense può essere esercitata individualmente o con la partecipazione ad associazioni tra avvocati” (comma 1), precisa che “Le associazioni tra professionisti possono indicare l’esercizio di attività proprie della professione forense fra quelle previste nel proprio oggetto sociale, oltre che in qualsiasi comunicazione a terzi, solo se tra gli associati vi è almeno un avvocato iscritto all’albo” (comma 5), e che “la violazione di [tale disposizione] costituisce illecito disciplinare” (comma 6).
Tale illecito disciplinare, tuttavia, non è stato riprodotto nel codice deontologico forense, quindi occorre chiedersi quale sia la sua effettiva portata, alla luce del principio fondamentale secondo cui la potestas judicandi del CDD può essere esercitata esclusivamente nei confronti degli iscritti all’albo/registro (CNF sentenza n. 242/2023), salvo eccezioni espresse (cfr. Cass. n. 146/1999 con riferimento agli avvocati temporanei di cui alla L. n. 31/1982 non iscritti in alcun albo o registro).
L’illecito impossibile dello studio associato.
A differenza delle società (che sono iscritte in un’apposita sezione speciale dell’albo tenuto dall’ordine territoriale nella cui circoscrizione ha sede la stessa società”: art. 4 bis co. 1 L. n. 247/2012), le associazioni tra avvocati non sono iscritte nell’albo, ma sono semplicemente censite dall’Ordine professionale in un apposito elenco (art. 4, co. 3 e art. 15, co. 1, lettera l L. n. 247/2012), a cui gli avvocati devono comunicare la relativa costituzione (art. 70 co. 2 cdf).
Pertanto, alla luce della premessa fatta con riferimento ai limiti della potestas judicandi, in difetto di una espressa disposizione legislativa che -come per le società- preveda l’iscrizione all’albo delle associazioni tra avvocati e attribuisca così al CDD il potere di sanzionarle, deve conseguentemente ritenersi che esse non abbiano una soggettività deontologica autonoma e distinta da quella dei loro associati, sicché -in definitiva- non sono soggetti imputabili di responsabilità disciplinare. Pertanto, la fattispecie di cui all’art. 4 commi 5 e 6 della L. n. 247/2012 non può riguardare detti enti collettivi, ma semmai gli associati persone fisiche.
Su questi ultimi si concentrerà, necessariamente, l’esame di questo studio.
L’illecito impossibile dell’avvocato associato.
La fattispecie disciplinare prevista dall’art. 4 commi 5 e 6 della L. n. 247/2012 non può riferirsi agli associati avvocati per il semplice fatto che la violazione stessa presuppone appunto l’assenza di avvocati nell’associazione che abusivamente si sia attribuita competenze in attività proprie della professione forense.
L’illecito impossibile del praticante associato.
Stante quanto sopra, la fattispecie disciplinare prevista dall’art. 4 commi 5 e 6 della L. n. 247/2012 rimarrebbe quindi circoscritta all’ipotesi in cui l’associazione in parola sia costituita da praticanti avvocati, i quali -com’è noto- “sono soggetti ai doveri e alle norme deontologiche degli avvocati e al potere disciplinare degli Organi forensi” (art. 2 cdf), cioè dei CDD (art. 50, co. 1, L. n. 247/2012), ad onta del fatto che -con una certa pervicacia- la Legge professionale affermi invece che essi sarebbero invece “soggetti al potere disciplinare del consiglio dell’ordine” (art. 42 L. n. 247/2012). L’evidente refuso è pure chiarito in via interpretativa dallo stesso CNF (parere n. 4/2018, reso su specifico quesito del COA di Milano).
In analogia con i cc.dd. “reati propri” (che possono essere commessi solamente da un soggetto che riveste una particolare qualifica soggettiva, status, condizione, posizione, qualità personale), alla luce di quanto esposto nei paragrafi precedenti, la fattispecie deontologica prevista dalla norma in parola potrebbe in un certo senso ritenersi un “illecito disciplinare proprio” dei praticanti, non potendo essere commesso che da loro.
Senonché, in realtà, i praticanti -abilitati o meno- non possono far parte di associazioni professionali, perché “l’articolo 4 comma 3 della legge 31 dicembre 2012, n. 247 consente la costituzione del rapporto associativo solo tra professionisti iscritti all’albo: tale requisito soggettivo integra una condicio facti, alla quale non può essere assimilata l’iscrizione al distinto registro dei praticanti” (CNF parere n. 60/2014).
Conseguentemente, non potendo far parte dell’associazione, la fattispecie disciplinare prevista dall’art. 4 commi 5 e 6 della L. n. 247/2012 non riguarda neppure i praticanti.
Conclusioni.
In definitiva, anche al netto dei refusi (certamente frutto del clima concitato con cui fu approvata la nuova legge professionale), deve ritenersi che la previsione legislativa di cui all’art. 4 commi 5 e 6 della L. n. 247/2012 riguardi un illecito disciplinare che non può essere commesso né dalle associazioni, né dagli avvocati, né dai praticanti, né tantomeno da altri individui non soggetti alla potestas disciplinare del CDD, sicché deve in conclusione condividersi la scelta -quantomai opportuna- di non riprodurre detta disposizione nel codice deontologico.